Adolfo Wildt
(1868 – 1931)
Il Prigione
Marmo
h.cm. 67
1915
Iscritto e firmato in oro sul lato sinistro IL PRIGIONE A.WILDT.
“Il marmo del ‘Prigione’ venne terminato il 20 gennaio 1915, come scrive Wildt in una cartolina inviata a Giovanni Scheiwiller, da cui si apprende anche che l’efficacia inquietante del marmo fu sperimentata per prima dalla figlia Artemia. Il marmo, più volte replicato, era destinato a Ernst Rose, ma fu poi acquistato nel 1917 da Venturo Zanotti; un altro esemplare era nella collezione degli eredi, mentre un gesso, dipinto di nero su fondo oro, venne regalato a Raffaello Giolli.
L’opera fu eseguita in occasione della personale alla Società Amatori e Cultori di Belle Arti di Roma nel 1915, dove era l’unica a non essere stata precedentemente concepita per Dölhau. L’esposizione procurò a Wildt allora feroci critiche, tra cui quella di essere ‘imparaticcio’ imitatore di Meštrović o il paragone con ‘quelle impressionanti mostre che si organizzano nei manicomi modello’. Esposta alla Galleria Pesaro nel 1919, l’opera ottenne le lodi di Anselmo Bucci: ‘I prigioni sfolgorano per l’eternità saettando a traverso il rastrello dei denti un urlo atroce.’ Ugo Bernasconi vi individuò uno snodo importante della scultura wildtiana, perchè ‘il Prigione, nella sua terrifica espressione, riafferra l’equilibrio tra la spontaneità e la consapevolezza, mantiene integri i grandi piani costruttivi con bella efficacia.’
Punto estremo della deformazione espressionistica iniziata con ‘La Maschera del Dolore’, il Prigione mostra riferimenti che da Michelangelo giungono al recupero di un Rinascimento, quello padano, che altera la materia con la perizia della lavorazione: così la robusta corda indica una strada che dal ‘Galata morente’ porta fino al ‘Cristo alla colonna’ del Bramante, pur nella resa virtuosistica che la rende più simile a un cordolo di raso. Il modulo, ridotto a cifra stilistica, ritornerà nell’erma di Cesare Battisti per il Monumento alla Vittoria di Bolzano.”
Paola Mola, Wildt. L’anima e le forme, catalogo mostra
‘Artista senza pace egli è, e senza bellezza, se per bellezza si intende proporzione e serenità e, pur nel dolore, il ritmo e la cadenza che trasformano il grido in canto e il tumulto in armonia. Ma in questo suo rotto tormento, in questa incessante fatica di trovare, per rivelarlo, un insolito linguaggio, in questa volontà d’esprimere l’invisibile e di torcere il corpo umano finché ne sprizzi l’anima, Wildt è anche d’una sincerità così schietta che forse un giorno sarà considerato come il vero esponente della nostra epoca stanca ed ansiosa, dicono, crudele e curiosa, affannata a picchiar su ogni pietra nei muri del suo carcere pur di trovare la via della fuga verso l’infinito e la speranza’.
Ugo Ojetti, Lo scultore Adolfo Wildt, in ‘Dedalo’, 1926
Di Adolfo Wildt vedi anche: Un Rosario – MCMXV e Luminaria